La Sardegna è la grande, anzi è l'unica ispiratrice dei
pennelli del Biasi, tanto quella, aspra, severa e pastorale
della settentrionale regione montuosa quanto quella,
languida voluttuosa ed elegante, della regione marinara
all'oriente ed a mezzogiorno dell'isola, le cui popolazioni
ebbero, nei secoli passati, rapporti di commercio e connubii
di persone con Saraceni e con Spagnoli. S'ingannerebbe,
però, a partito colui che nei suoi vivaci quadri ad olio,
nelle sue delicate tempere e nelle sue asciutte e nervose
silografie si proponesse di cercare una fedele paziente e
minuta esattezza etnografica di tipi, di paesaggi e di
oggetti. Il Biasi, infatti, sebbene sappia, sempre che
voglia, contemplare con sereno sguardo e rievocare con ferma
mano il vero, siccome nella mostra del Cova lo attestava
tutta una serie di eccellenti studii di teste muliebri o
virili, preferisce di cedere agli impulsi della sua fantasia
trasfiguratrice.
Egli quindi suole servirsi della realtà soltanto come punto
di partenza per giungere poi a composizioni - ingegnose
sempre se anche talvolta fin troppo fitte di figure,
accalcate le une suite altre - nelle quali gli elementi
forniti dal vero siano coordinati accentuati e perfino
stilizzati in maniera da ottenere ora un suggestivo effetto
di caratterismo pittoresco di sapore alquanto letterario,
ora un giocondo e leggiadro effetto decorativo, raggiunto
mercé un'elegante distribuzione di rabeschi ed un armonioso
accordo di tinte e fatto quasi esclusivamente per la gioia
degli occhi. |
Questa ricerca assidua del carattere nell'opposizione
scenografica di tipi contadineschi a sfondi luminosi di
montagne e di caseggiati rusticani, su cui essi appaiono
quasi rintagliati in ombra, ha fatto affermare dal
resocontista d'arte di un autorevole e diffuso giornale
milanese che la pittura di Biasi derivi in linea diretta da
quella di Zuloaga ed il giudizio molto sommario ed
abbastanza arbitrario ha trovato subito un'eco in quei
numerosi visitatori di esposizioni che credono di
addimostrarsi competenti, ripetendo pappagallescamente, ma
con grande sicumera, ciò che da altri è stato detto o
scritto. Orbene, se si vuole riavvicinare il Blasi ad
artisti stranieri, non lo si deve paragonare a Ignacio
Zuloaga, cerebrale austero e pessimista, che, mentre aspira
a riallacciare l'opera propria a quella degl'illustri
maestri iberici del Seicento e del Settecento, si compiace
di riprodurre del suo paese nativo sopra tutto gli aspetti
tetri e grandiosi ed i tipi tragici violenti e malsani, ma
piuttosto ai fratelli Valentin e Ramon de Zubiaurre, assai
più fedeli al vero del pittore sardo, ma che come lui amano
di mettere in rilievo ed anche di caricaturalmente esagerare
gli aspetti grotteschi degli abitanti dei piccoli villaggi
alpestri. Bisogna, però, ad evitare giudizii temerarii e
spesso non poco dannosi alla fama nascente di un giovane
artista, soggiungere che si tratta di una spiegabilissima
comunanza d'indole pittorica e non già di imitazione
volontaria ed astuta e come tale riprovevole.
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In quanto a
Raoul de Chareun, nato nel 1890 a Sassari, anche lui
fece regolarmente gli studii classici del ginnasio e del
liceo e, venuto nel continente, s'iscrisse nell'Università
di Padova alla facoltà d'ingegneria. La gloriosa città
universitaria del Veneto, invece, però, di fare di lui un
ingegnere dalla carriera brillante e largamente
rimunerativa, secondo il desiderio della sua famiglia, ne
fece, sotto il pungolo ambizioso di diventare, collaborando
al giornaletto satirico Lo studente di Padova, una piccola
celebrità del mondo goliardico patavino, un caricaturista. E
il caricaturista facile ed abbondante, doveva, in prosieguo
di tempo, diventare illustratore dal segno minuto e
dall'osservazione umoristica, che la mostra del Cova ci ha
fatto, qualche settimana fa, conoscere e più di una volta
ammirare, malgrado evidenti incertezze e deficienze formali,
per la visione penetrante e maliziosa delle case e delle
persone.
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Però, al contrario del Biasi e dell'Altara, non solo alla
nativa Sardegna egli ha chiesto l'ispirazione. Infatti,
accanto a scenette ed a tipi umoristici drammatici e
sentimentali suggeritigli da essa, ecco ad esempio
L'uccisione del maiale, Muttetu e Cantori,
nell'opera sua d'illustratore si trovano aspetti ed episodii
della vita delle grandi città del Continente, in cui sopra
tutto si manifesta attraente ed interessante la sua
individualità di "piece-sans-rire" della matita, che, pure
risentendo talora l'influenza dello svizzero Steinlen, del
francese Poulbot ed in ispecie dello svedese Arosenius, sa
mantenersi ognora abbastanza originale. Ora non ci rimane
che augurargli di avere la buona ventura di ottenere da
qualche editore l'incarico di decorare con vignette a bianco
e nero o, meglio ancora, a colori un libro che gli conceda
di sviluppare appieno la sua vena in pari tempo burlesca
pessimista e sensuale.
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Venendo infine ad
Edina Altara, la sua ancor tanto breve carriera
artistica la si racconta in poche righe. Nata a Sassari
diciotto anni fa, un gruppetto di sue minuscole opere, in
cui la carta assume così graziosamente a delicato materiale
d'arte, venne nel 1914 esposto per la prima volta in un
cantuccio di non ricordo più quale mostra regionale sarda.
Apparvero subito come una rivelazione di un ingegno non
comune e sorpresero in modo assai gradevole i visitatori, i
quali si arrestavano con viva compiacenza a guardarli, dopo
avere dovuto contemplare, attraverso una lunga fila di sale
e con fastidio crescente, una farragine di oggetti per la
maggior parte superflui ingombranti e di cattivo gusto. Così
un viandante, dopo una lunga passeggiata sotto il sole e in
mezzo alla polvere, si ferma con gioia sul limitare di un
bosco ad ascoltare la voce esile ma fresca e bene intonata
di un uccellino che gorgheggi su di un alto ramo d'albero.
Tra coloro che s'interessarono alla produzione della
giovanetta dalle dita di fata ci fu il Biasi, i cui consigli
sagaci ed esperti dovevano in appresso riuscire non poco
utili a sviluppare e a raffinare le attitudini di lei per
l'arte.
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Due anni dopo le figurette in cartone dell'Altara riuscivano
a conquistare l'attenzione di un pubblico di gran lunga più
numeroso ed eletto nelle due mostre invernali del giocattolo
tenute a Milano, nel Palazzo della Borsa e nel Lyceum
femminile. Piacquero molto sia per la grazia sottile
dell'osservazione sia per la stilizzazione elegante con cui
vi erano rappresentati ora due monelli che si arrampicano su
di un albero carico di frutti ed ora una bimba che tira per
la coda un gatto, ora una mamma che pettina la sua
figlioletta ed ora due contadinelle che procedono impettite
con grossi secchi d'acqua in testa, ora un uomo che suona il
piffero ed ora una sposa a cavallo di un muletto bardato da
festa. Balocchi non certo pei fanciulli, pel cui gusto
ingenuo e semplificatore sono troppo minuziosamente
particolareggiati e troppo prossimi al vero e per le cui
manine irrequiete sono senza dubbio alcuno troppo fragili,
ma balocchi per adulti, tanto che dinanzi ad essi si ripensa
a certi ninnoli in legno e dalle tinte vivaci, raffiguranti
anche essi, sebbene con minore varietà di aspetti e di pose
ma sopra tutto con molto minore grazia e molto minore
buongusto, villanelle, uccellini e bestie da cortile, che
nel 1912 erano in vendita nel padiglione ungherese
dell'esposizione internazionale d'arte di Venezia.
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